Il Post ha buttato benzina sul fuoco con un articolo dal titolo: “Si può promuovere la psicoterapia come un prodotto qualsiasi?”. La risposta secca è no: la salute mentale non è un paio di sneakers da lanciare in edizione limitata. Però, se guardiamo bene, le piattaforme di telepsicologia hanno già fatto il salto: dalla terapia intima allo spot sul 6×3 e al reel su Instagram.
Allora la vera domanda diventa un’altra: come si fa a comunicarla senza trasformarla in un volantino da discount dell’anima? Qui entra in scena il marketing etico. Perché sì, la psicoterapia può essere raccontata, ma non con la stessa logica di un Black Friday. Chi pensa che basti infilare un codice promo per affrontare e trasmettere questo settore dimostra di non aver capito né il marketing né la psicoterapia.
Perché la pubblicità della psicoterapia divide
Il motivo è semplice, non stiamo vendendo un energy drink, ma un servizio che tocca fragilità importanti, umane, a volte anche punti deboli che le persone cercano di nascondere. Certo, le piattaforme hanno reso la terapia più accessibile: prezzi più bassi, psicologi disponibili in due click, sedute da casa propria. Ma insieme hanno importato logiche da e-commerce come referral program, sconti a tempo, campagne da “porta un amico”. Gli Ordini professionali non potevano che storcere il naso poiché sicuramente un cashback emotivo non è esattamente la rivoluzione che ci aspettavamo.

Il paradosso è lampante: da un lato si normalizza la terapia, dall’altro la si riduce a prodotto stagionale, tipo panettone a dicembre. Risultato? Un dibattito infinito, chi applaude alla democratizzazione e chi denuncia la svendita. Io dico che la differenza la fa sempre una cosa sola: la tipologia di comunicazione.
I rischi del marketing “spinto” sulla salute mentale
Il lato grottesco della vendita di pacchetti di psicoterapia è quello che ha fatto aprire il dibattito su questo argomento. Ma che ci sia un lato del genere non ci sorprende, anzi, succede in ogni ambito. Il problema è pensare che le stesse regole della vendita di biscotti possano valere per la vendita di sedute di psicoterapia. Quando prima di tutto non parliamo di un prodotto singolo, di un pacchetto, ma di un percorso. Già qui dovrebbe suonarci un campanello bello chiaro. E invece il tentativo di svenderla come cookie è stato fatto e viene ancora fatto:
- Codici promo e scontistiche: la psicoterapia non è un 3×2 da supermercato. Punto.
- Accoppiate commerciali discutibili: regalare sedute con un detergente intimo (il caso di UnoBravo) resta l’esempio perfetto di “idee da non replicare mai”.
- Promesse facili: tre sedute e via l’ansia? Magari. In realtà crei solo aspettative tossiche.
- Spettacolarizzazione: trasformare fragilità reali in contenuto da talent show è intrattenimento travestito da sensibilizzazione.
- Profilazione dei dati: predicare ascolto e intanto monetizzare i dati è il colpo di grazia alla fiducia.
- Effetto moda: la terapia come status symbol social è ridicola. Non è una borsa da mostrare nei tiktok.
Unobravo e Serenis: i giganti della telepsicologia
Quando si parla di pubblicità legata alla salute mentale, i nomi che spuntano fuori sono sempre gli stessi: Unobravo e Serenis. La prima, fondata da Danila De Stefano nel 2019, è nata per aiutare gli italiani all’estero a trovare uno psicoterapeuta nella propria lingua. Partita con 5mila euro, oggi è un colosso da 124 milioni di fatturato annuo, con 8mila psicologi affiliati e una comunicazione che mescola linguaggio empatico e logiche da startup.
Serenis, lanciata nel 2021 da Silvia Wang e Daniele Francescon, non è da meno: oltre 25 milioni di fatturato in pochi anni, con una squadra in cui il marketing pesa quasi quanto la psicologia. Entrambe hanno fatto del digitale la loro arena, tra codici sconto, referral program e campagne social. La differenza? Poca, se non nello stile. Unobravo più rassicurante e tradizionale, Serenis più spinta e pop, con partnership che vanno dai podcast a X Factor.
Due modelli diversi, stesso punto critico: la sottile linea tra sensibilizzazione e discount.

Quando la psicoterapia diventa un gadget: il caso UnoBravo & Chilly
L’esempio più discusso degli ultimi anni è la campagna UnoBravo & Chilly. In pratica: acquista un detergente intimo e vinci due sedute di psicoterapia. Ma dai, davvero a nessuno si è accesa una lampadina? Una trovata che ha fatto saltare sulla sedia mezzo Ordine degli Psicologi italiano, tanto da spingere i presidenti di Lazio, Campania, Sicilia, Marche, Abruzzo e Veneto a firmare una lettera di fuoco.
Si parlava di riduzione della psicoterapia a premio da concorso, di posizionamento indegno per una prestazione sanitaria, di mancanza totale di informazione sul servizio. Insomma, un caso da manuale su come non fare comunicazione in ambito salute. Se volevano passare alla storia, ci sono riusciti: come case study negativo da raccontare a lezione di marketing etico.

Serenis tra X Factor, podcast e influencer
Se Unobravo ha scelto un linguaggio più rassicurante, Serenis ha deciso di buttarsi a capofitto nello show business. Non parliamo solo di codici sconto, ma di vere e proprie incursioni pop, come partnership con X Factor, podcast come Cibo per la mente prodotto insieme a Factanza, fino alle sponsorizzazioni con influencer del calibro di Giulia Salemi.
L’idea è chiara ovvero stare dove sta il pubblico giovane, agganciare ventenni e trentenni nel loro habitat naturale come Instagram, TikTok, Spotify. È una strategia brillante? Sì, perché normalizza la psicoterapia e la porta in contesti impensabili fino a pochi anni fa. Ma è anche un’arma a doppio taglio, infatti spettacolarizzare troppo il percorso terapeutico rischia di trasformare l’aiuto psicologico in contenuto d’intrattenimento. Serenis gioca con il fuoco, bilanciando visibilità e superficialità. E per ora il pubblico applaude. Ma il confine tra sensibilizzazione e showbiz è sottile, e basta un passo falso per scivolare nel ridicolo.

Quando una campagna pubblicitaria ha senso
Non demonizziamo la pubblicità, se usata con criterio, fa persino bene. A volte è l’unico strumento per scalfire muri culturali. Non serve inventarsi trovate geniali, basta usare il cervello e non scivolare nella farsa. La pubblicità riguardante la salute mentale ha molteplici pro, che superano di gran lunga i contro. Come sempre la verità sta nel mezzo, nell’equilibrio e nell’etica. Al momento le campagne offrono la possibilità di:
- Abbattere lo stigma: mostrare che andare in terapia è normale quanto andare dal dentista. Fine.
- Educare: chiarire i ruoli (psicologo, psicoterapeuta, psichiatra) è un atto di servizio pubblico.
- Mostrare accessibilità: prezzi chiari e tariffe trasparenti sono la miglior campagna di sensibilizzazione possibile.
- Partnership culturali: scuole, aziende, festival. Qui la comunicazione è valore sociale, non pubblicità mascherata.
- Storytelling autentico: racconti veri, senza hashtag imbarazzanti e senza estetica Instagram. Il dolore non ha bisogno di filtro.
La terapia non diventa un trend, ma un percorso serio che finalmente si può raccontare senza vergogna. Ma attenzione, quello che può accadere è che indirettamente si vada ad affermare che sì, lo psicologo va bene, ma lo psichiatra no. Alcune volte le campagne possono stigmatizzare la psichiatria che, mi spiace se a molti darà fastidio tale affermazione, ma spesso deve andare a braccetto con la psicologia.
Marketing etico: la bussola per non perdersi
Il marketing applicato alla salute mentale non è un terreno per improvvisati, perché qui non basta inventarsi una trovata brillante per sembrare innovativi. La psicoterapia non è una seduta singola da regalare con un coupon, né tantomeno un gadget da abbinare a un detergente intimo. È un percorso lungo, a volte di anni, che si fonda sulla continuità, sulla fiducia e su un rapporto intimo tra paziente e professionista. Ridurlo a una promozione stagionale significa svuotarlo di senso, banalizzare un processo delicato e trasformare la cura in intrattenimento commerciale.
Un comunicatore serio lo sa bene, le persone che cercano supporto psicologico non sono numeri da convertire in un funnel e gli psicologi non sono operatori a chiamata pronti a rispondere come in un call center. Ogni messaggio che esce in pubblico pesa, e può rafforzare la fiducia o incrinarla irrimediabilmente. Il marketing etico non è un gesto di buon cuore, ma una scelta di intelligenza strategica, perché in questo settore non vince chi grida più forte, ma chi riesce a costruire credibilità nel tempo.
La comunicazione responsabile significa saper dire no alle scorciatoie, alle promesse facili e alle campagne che generano rumore ma distruggono reputazione. La vera partita non si gioca sui like o sui codici sconto, ma sulla capacità di trasmettere rispetto, chiarezza e coerenza. Chi sa fare questo non rincorre l’hype, lo governa e alla fine, in un contesto dove la fiducia è la valuta più preziosa, il vero ritorno non è l’engagement temporaneo, ma la credibilità a lungo termine.